Sunday, October 25, 2009

Un mondo ingiusto (di Noam Chomsky)

La crisi finanziaria colpisce l'occidente, la fame si abbatte sul sud del pianeta. Ma il problema più grave riguarda la democrazia, ridotta a uno show per cittadini spettatori. E' ora di cambiare, scrive Noam Chomsky.

L'11 giugno la New York Reviews of Books ha pubblicato i pareri di alcuni esperti sul tema "Come affrontare la crisi". E' una lettura molto interessante, ma bisogna fare attenzione a quell'articolo determinativo. Per l'occidente "la crisi" è la crisi finanziaria che ha colpito i Paesi ricchi. E' una crisi molto importante, ma anche per i ricchi ed i privilegiati non è certo l'unica, e neanche la più grave. Altri vedono il mondo diversamente. Per esempio, il 26 ottobre 2008 il quotidiano bengalese The New Nation ha scritto: "E' molto significativo che siano stati spesi migliaia di miliardi di dollari per rimettere in sesto i principali istituti finanziari del mondo, mentre i 12,3 miliardi di dollari previsti dall'Onu all'inizio del 2009 per combattere la crisi alimentare ancora non si vedono. L'obiettivo di sradicare la povertà estrema entro la fine del 2015 è sempre meno realistico, non per carenza di risorse ma perchè non c'è un vero interesse per i poveri del mondo". L'articolo prosegue anticipando che la giornata mondiale dell'alimentazione, il 16 ottobre 2009, "porterà pessime notizie sulla situazione dei poveri nel mondo e nient'altro: semplici notizie che non provocheranno nessuna reazione".

I leader occidentali sembrano decisi a confermare questa previsione. L'11 giugno il Financial Times scriveva che "il programma alimentare delle Nazioni Unite sta tagliando le razioni e interrompendo alcuni interventi perchè i Paesi donatori, colpiti dalla crisi economica, hanno ridotto i finanziamenti". I tagli sono stati fatti nel modo peggiore: nel mondo le persone che soffrono la fame sono più di un miliardo (cento milioni si sono aggiunte negli ultimi sei mesi), i prezzi aumentano e le rimesse degli emigranti diminuiscono a causa della crisi in occidente.

Come aveva sospettato The New Nation, le pessime previsioni diffuse dall'Onu non hanno neanche raggiunto la dignità di notizie. Sul New York Times i tagli al programma alimentare hanno avuto un trafiletto a pagina 10. Le Nazioni Unite hanno anche denunciato che un miliardo di persone rischia di morire per le conseguenze della desertificazione. Secondo il giornale nigeriano Thisday, l'obiettivo era sensibilizzare l'opinione pubblica e incoraggiare il rispetto delle convenzioni internazionali sull'ambiente. Ma questo aspetto è stato completamente trascurato dalla stampa statunitense.

Succede di continuo. Basta ricordare che quando sbarcarono nella regione oggi occupata dal Bangladesh, gli invasori britannici rimasero allibiti dalla ricchezza e dallo splendore di un Paese che oggi è il simbolo della miseria. Come testimonia il destino del Bangladesh, la crisi alimentare non è solo il risultato della "mancanza di vero interesse" da parte dei potenti della terra. Adam Smith aveva osservato che all'epoca i "principali artefici" della politica britannica, cioè gli industriali e i mercanti, difendevano a tutti i costi i loro interessi. Non si preoccupavano delle conseguenze per i cittadini inglesi e tanto meno per quelli che erano soggetti "alla selvaggia ingiustizia degli europei", in particolare dell'India conquistata all'impero. Smith si riferiva al sistema mercantilistico, ma la sua osservazione ha un valore più generale ed è uno dei pochi princìpi solidi e duraturi che regolano sia i rapporti internazionali sia gli affari interni dei Paesi. E' anche vero che non si deve generalizzare troppo. Ci sono casi in cui gli interessi dello stato, compresi quelli economici e strategici a lungo termine, hanno la meglio su quelli delle concentrazioni di potere economico che di solito condizionano la politica, come in Iran e a Cuba.

La crisi alimentare è scoppiata ad Haiti all'inizio del 2008. Come il Bangladesh oggi Haiti è un simbolo di miseria e disperazione. E come il Bangladesh, quando arrivarono gli esploratori europei l'isola era ricca di risorse e aveva una popolazione florida e numerosa. In seguito diventò fonte di buona parte della ricchezza della Francia. Senza stare a ripetere tutta la storia, diciamo che l'attuale crisi alimentare di Haiti si può fare risalire direttamente al 1915. L'invasione voluta dal Presidente statunitense Woodrow Wilson fu sanguinosa, brutale e distruttiva. Il parlamento haitiano fu sciolto con le armi perchè rifiutava di approvare la "legge progressista" che avrebbe consentito alle aziende statunitensi di impossessarsi delle terre haitiane. Poi i marines di Wilson organizzarono libere elezioni in cui la legge fu approvata al 99,9% dal 5% della popolazione che potè votare. Tutto questo è passato alla storia come "idealismo wilsoniano".

Più tardi l'Usaid, l'agenzia degli Stati Uniti per lo sviluppo internazionale, avrebbe creato programmi per trasformare Haiti nella "Taiwan dei Caraibi" in nome del sacro principio del vantaggio relativo: Haiti doveva importare cibo e altre merci dagli Stati Uniti, mentre gli operai, che erano soprattutto donne, dovevano lavorare in condizioni pietose alle catene di montaggio delle industrie americane. Nel 1990 le prime elezioni libere di Haiti misero in pericolo questo programma economico così razionale. La maggioranza povera del Paese entrò per la prima volta nell'arena politica ed elesse il suo candidato, il prete populista Jean-Bertrand Aristide. Washington adottò la procedura che usa sempre in questi casi: cominciò a boicottare il regime. Qualche mese dopo infatti arrivò il colpo di stato militare, e la giunta che prese il potere instaurò un regime di terrore, con l'appoggio di Bush senior e ancor più di Clinton, anche se l'amministrazione statunitense fingeva il contrario. Nel 1994 Clinton decise che la popolazione era intimidita a sufficienza e mandò i suoi soldati a reinstaurare il presidente eletto, ma a condizione che accettasse un duro regime liberista. In particolare, non doveva esserci nessuna forma di protezionismo economico. I coltivatori di riso haitiani erano bravissimi, ma non tanto da competere con le aziende agricole americane, che potevano contare su forti sussidi governativi soprattutto grazie a Reagan, definito da qualcuno l'alto sacerdote del libero scambio nonostante le sue iniziative di protezionismo estremo e di intervento dello stato nell'economia

Quindi non c'è da sorprendersi di quello che successe dopo. Un rapporto dell'Usaid del 1995 avvertiva che la politica commerciale e d'investimento imposta da Washington avrebbe ridotto alla fame i coltivatori di riso locali. Il neoliberismo smantellò quel poco che rimaneva della sovranità economica del Paese e lo fece precipitare nel caos. George W. Bush peggiorò la situazione bloccando gli aiuti internazionali per puro cinismo. A febbraio 2004 i due torturatori storici di Haiti, la Francia e gli Stati Uniti, appoggiarono un colpo di stato militare che costrinse il presidente Aristide all'esilio in Africa. Da allora, Haiti non è più riuscita a provvedere ai suoi bisogni alimentari ed è rimasta in balìa delle fluttuazioni dei prezzi delle derrate, che è stata la causa principale della crisi alimentare del 2008.

Storie simili si sono ripetute in molte parti del mondo. In senso stretto, forse è vero che la crisi alimentare è il risultato del disinteresse dell'occidente: sarebbe bastato poco per evitare gli effetti più gravi. Ma soprattutto è il risultato della totale dedizione ai principì di una politica statale condizionata dalle grandi imprese, come aveva indicato Adam Smith.

Sono tutti problemi che cerchiamo di non vedere, come il fatto che salvare le banche non è esattamente la prima preoccupazione di miliardi di persone che soffrono la fame, anche nel Paese più ricco del mondo. Non ci preoccupiamo neanche di cercare un modo per contenere la crisi, sia finanziaria sia alimentare. Lo suggerisce l'autorevole rapporto del Sipri, l'istituto di ricerche sulla pace di Stoccolma, secondo cui le spese militari sono altissime e in continuo aumento. Gli Stati Uniti spendono quasi quanto il resto del mondo messo insieme, sette volte di più della Cina che è al secondo posto. E' un dato che si commenta da solo.

La distribuzione delle nostre preoccupazioni dimostra che c'è anche un'altra crisi, una crisi culturale: la tendenza a concertrarsi sui vantaggi personali a breve termine è tipica delle nostre istituzioni economiche e del sistema ideologico che le sostiene. Ne sono un esempio gli incentivi creati dai manager per arricchirsi senza preoccuparsi delle conseguenze per gli altri, come il fatto che la gente comune paga involontariamente per salvare le aziende "troppo grandi per fallire". (...).

(Da un articolo di Noam Chomsky pubblicato sul "The Boston Review" - Internazionale, n.816 del 9/15 ottobre 2009. Noam Chomsky è docente di linguistica e filosofia al MIT di Boston. Esponente della sinistra radicale nordamericana è considerato il più brillante intellettuale militante del nostro tempo.)

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